Un bosco di ferro che si muove
a cura di Elisabetta Longari
Villa Cernigliaro, Sordevolo, Biella
dal 25 settembre al 21 novembre 2004
Raramente i luoghi dell’arte nel mondo attuale hanno un sapore così significativo e insieme oscuro, di un’oscurità che sembra relazionabile con quella, anche se più polverosa, che , a partire dalle fotografie, immagino fosse caratteristica dell’atelier di Giacometti.
L’immagine che sopraggiunge una volta varcata la soglia dello studio è quella della caverna che dal punto di vista del portato simbolico ha una ricchezza quasi ineguagliabile.
Il giovane Anceschi, che ha il volto segnato da un paio di baffetti senza tempo, lavora in una sorta di antro, invaso, più che abitato, da una segreta giungla di ferro le cui ombre articolatissime si stagliano moltiplicandosi sulle pareti a formare un’ulteriore rete spaziale, più immateriale ma altrettanto tenace.
Le ombre partecipano almeno quanto le forme che le generano alla costruzione del luogo della scultura.
Le sculture assomigliano pericolosamente a organismi viventi: funzionano secondo un ritmo costituito dall’alternanza di sistole e diastole, come il respiro. E sembrano tutte rifarsi alla “figura” dell’albero, ricca di significati che spaziano dall’asse del mondo al doppio dell’uomo nel regno vegetale perché con esso spartisce lo slancio verso la verticalità.
Tra i più recenti e significativi sviluppi della “figura” dell’albero indimenticabile è la “versione visiva” che ne ha dato il cinema d’animazione di Walt Disney. Tra le “scene primarie” proposte dal cinema all’immaginario infantile del mondo occidentale, “colonizzato culturalmente” dall’imperatore dei cartoons ( e dalla Barbie), ha particolare rilievo quella che si svolge nel bosco vivente di Biancaneve, nella fitta foresta composta da alberi che hanno braccia, mani, e perfino unghie, artigli; e si muovono… Questa immagine perturbante ha notevole pregnanza in quanto rappresenta l’efficace sintesi di componenti ancestrali e archetipiche , ancora attive come tizzoni ardenti nell’inconscio collettivo.
Come alberi le sculture di Anceschi si diramano espandendosi e contraendosi a “di-segnare” lo spazio in diverse direzioni, e come gli alberi della Biancaneve disneiana si muovono come se avessero vita propria, elastici e imprevedibili oscillano a ogni minimo spostamento d’aria.
I “racemi” delle sue sculture sono sensibili come le vibrisse del muso di un gatto… esplorano lo spazio con le loro sottili dita… Che la vita sommessa, sommersa, ma sorprendentemente autonoma delle sculture sia il dato principale e costante del suo lavoro viene confermato da quanto Anceschi scrive : “Anche la più piccola scheggia di ferro che entra nel mio lavoro, ci entra perché aveva in sé qualcosa che la predisponeva al movimento, a partecipare a un movimento”.
Certo ci si potrebbe riferire a Melotti, per non dire di Calder e di quanti altri hanno sfruttato sensibilmente, nel dar forma mutevole alle loro “anti-sculture”, le conseguenze, “i riflessi” dei movimenti che si verificano nell’ambiente intorno; ma sul piano critico mi sembra sempre meno interessante volgere il discorso verso il tratteggio del presunto pedigree dell’artista di cui si parla, mentre credo più fecondi il tentativo di metterne a fuoco il funzionamento del meccanismo creativo e l’intento di chiarire in che modo le opere agiscano sullo spazio, sulla percezione e sulla psicologia dello spettatore.
Il processo di gestazione e realizzazione ha il carattere di una genesi, non esiste un’ideazione vera e propria, a priori, e l’opera nel suo farsi segue un iter affidato in larga parte al caso, all’incontro fortuito, all’intuizione.
La scultura è come se fosse per Valerio una malattia da cui è costantemente affetto ma che non sempre si dà all’evidenza attraverso dei sintomi, un po’ come la febbre malarica che si presenta e sale solo a tratti. Più utile alla comprensione del suo lavoro che stabilire metafore letterarie è tentare di ripercorrere le modalità operative che lo presiedono: inizialmente egli, si badi bene, non trova ma “recluta” i suoi materiali secondo un criterio che per certi aspetti si rivela preciso e trasparente; è come se agisse nella scelta con “un occhio che vede, l’altro che sente”, per dirlo con le parole di Klee. Egli si dimostra inequivocabilmente attratto in primis dalla serialità (per questo sceglie i suoi materiali nel repertorio degli scarti della produzione dell’industria metalmeccanica), dalle infinite possibilità di “montaggio” che essa offre, e contemporaneamente si mette in condizioni di essere “chiamato” dalle potenzialità generative delle forme.
Dopo aver “colto” non importa dove e “raccolto” in studio i materiali, egli li osserva a lungo, vive loro accanto ponendosi in ascolto dei loro silenzi come dei loro suggerimenti, finché l’impulso della sua ars combinatoria di matrice costruttiva, fattosi sempre più urgente, finisce per manifestarsi nelle azioni conclamate che danno luogo alla realizzazione dell’opera. Combinare e saldare: queste sono principalmente le operazioni da cui nascono le sculture di Anceschi. E , conviene ribadire l’estraneità di questa prassi tanto da l’esprit de l’objet trouvè, come già si è premurato di rilevare Alberto Veca, quanto da un progetto a priori, come è stato del resto sempre ribadito da ogni lettura critica.
E’ al ferro che va tutta l’attenzione e la predilezione dell’autore, e, come Eleonora Fiorani ha sottolineato, nel ferro egli cerca la leggerezza, la flessibilità e il movimento, caratteristiche tutte che sembrano essere frutto di un capovolgimento degli stereotipi della materia, per fare emergere dal ferro gli aspetti meno appariscenti e poco sfruttati, in esso contenuti spesso solo in potenza. Il ferro guadagna mobilità, versatilità, elasticità, instabilità continuando a mantenere però la sua tenacia quasi graffiante mentre la sua forza affermativa non risulta sminuita dal senso ipotetico che ogni forma dell’opera di Anceschi propone come più autentica “figura” della scultura.
Incontrovertibili e volitive presenze aliene da qualsiasi senso di monumentalità, le “creature” di Valerio sono “quasi albero o quasi antenna o quasi squilibrio puro”, secondo una felicissima espressione di Leonetti. “Intendo dire qualcosa che si intromette ma che non sgomita”, afferma l’autore di queste “quasi” sculture: con esse infatti tende a divaricare lo spazio, creandovi traiettorie molteplici, a mobilitarlo, a dinamizzarlo, a imprimervi scatto ed energia; non è palesemente interessato a ingombrarlo, saturarlo, opprimerlo.
Non diversamente da quanto faceva quando da giovanissimo dipingeva guardando a Pollock: le sue sculture sono organizzazioni di segni di ferro che conservano del dripping la tensione costruttiva del segno come traccia di energia. Anceschi segna, di-segna, scrive con la sua grafia tridimensionale nello spazio, una grafia che, riconoscibile nelle sue caratteristiche principali, si applica a scrivere “ideogrammi” che respirano nello spazio e si pongono in un vicendevole dialogo contemporaneamente stringato e rarefatto.
Torno all’immagine iniziale tanto impressionante dello studio, di cui qualsiasi esposizione restituisce solo un lontano ricordo: grande è la sorpresa di vedere le sculture assieparsi in un interno; esse generano la stessa sensazione di deplacement che si prova osservando quei quadri di De Chirico che rappresentano paesaggi cresciuti nell’ombra di stanze segrete. All’aperto invece le sculture di Anceschi si mescolano alla realtà naturale dimostrando con essa una speciale alleanza che nasce da una strana e arcaica consanguineità.