Levia Gravia. Un incontro
a cura di Francesco Tedeschi
Fondazione Sabe per l’Arte Ravenna
dal 15 aprile al 24 giugno 2023
Cose pesanti che paiono o diventano leggere e cose leggere, ma di qualche peso, o “gravità”. Così si può intendere l’ossimoro, di origine latina e di evocazione carducciana, nei termini che qui si vogliono considerare adeguati alle realizzazioni di due autori, Valerio Anceschi e Luca Scarabelli, da tempo attivi su una scena in cui sono considerati ancora giovani, nonostante decenni di lavoro alle spalle. Li si presenta qui accostati, anche se, pur essendosi sfiorati più volte, probabilmente non si erano mai incontrati, o almeno non consapevolmente, prima di questa mostra.
Si vuole sottolineare la parola “cose”, per come scaturisce dall’uso del neutro nel titolo in latino, anche per sottrarla al significato passe-partout con cui nel linguaggio comune la adoperiamo. “Cose” che non sono da considerarsi come soggetti di incerta definizione linguistica e oggettiva; “cose”, piuttosto, come le intende la filosofia, vale a dire come presenze fisiche che ci interrogano; “cose”, però, soprattutto nel senso in cui, in una connotazione materiale, vanno a definirsi anche in ambito scultoreo, come elaborazioni o manufatti che si qualificano per la loro dimensione oggettuale.
Nel loro statuto di opere, le creazioni di Anceschi e Scarabelli valgono a rappresentare connotazioni che risalgono a una storia della scultura moderna nella quale si rispecchiano, naturalmente con una loro originalità. In particolare, potremmo considerare che il modo di operare di Anceschi si ricollega a una tradizione della scultura ottenuta per connessione e saldatura di elementi di ferro, recuperati da ignote lavorazioni, secondo un modo di agire che ha una tradizione ormai secolare. Radicata nelle invenzioni di Julio Gonzales e poi di Picasso, nella Parigi tra le due guerre, essa trova in seguito, soprattutto nella scultura americana del secondo dopoguerra, e quindi in una linea della scultura europea accostata “all’informale”, una forte fase di espansione, rispetto alla quale le molte elaborazioni successive si confrontano inevitabilmente. In altro modo, le operazioni
di Scarabelli che, per motivi contingenti, ma non solo, si annoverano qui specificamente in campo scultoreo – per quanto tale delimitazione sia riduttiva, nel considerare il suo lavoro nella sua complessità – discendono da un’altra tradizione moderna o modernista della scultura, che ha nel ready made e nell’objet trouvé la sua più immediata corrispondenza, con quanto da ciò deriva, in termini di relazione tra oggetto e significato e per la valenza necessariamente concettuale che ciò comporta. Nel suo caso, infatti, le “cose” sono “cose” traslate, in cui la condizione specifica, l’accostamento proposto e lo stesso titolo vanno a costituire un percorso unitario, dove l’opera, anche nelle sue caratteristiche fisiche, è l’esito di un processo mentale.
Tenendo conto di questa distinzione di fondo, si potrebbe ascrivere il modo di intendere la scultura da parte di Anceschi a un processo prioritariamente formale, mentre per quella di Scarabelli entra in gioco necessariamente una componente mentale, anche se con aspetti che si possono definire lirici, poetici o “romantici”. Tale divaricazione, tra un’arte orientata ai valori formali e una più orientata alla dimensione concettuale, che per almeno una generazione è stata determinante e ha prodotto incomunicabilità tra due modi diversi e lontani di intendere non solo la scultura, ma l’idea stessa di opera d’arte, come manufatto o come esercizio linguistico, è andata riducendosi nel corso del tempo, per lasciare nuovo spazio e attenzione alle qualità individuali, di posizioni che non si fronteggiano, ma si compenetrano, in un orizzonte che, come sempre, va assorbendo i paradigmi nella pratica quotidiana. Per questo esse non hanno perciò, ormai da tempo, una valenza estetica o critica. Si potrebbe, con linguaggio critico che ha altre sponde di confronto, parlare piuttosto del rapporto tra “forma” e “immagine”, per indicare come l’opera dell’uno, Anceschi, muovendosi prioritariamente sul piano della costruzione e della realizzazione formale, parta da principi autosufficienti, per andare a definirsi comunque come “immagine”, vale a dire come strumento per sollecitare associazioni visive e suggestioni figurali.
D’altro canto, gli oggetti chiamati in causa da Scarabelli, configurandosi immediatamente sul piano dell’immagine, quali reperti oggettuali di diversa origine, che riconosciamo in primo luogo come tali – materiali, come si dice anche impropriamente, “poveri”, quasi casuali – per via del loro stato di estrapolazione dal contesto d’uso e di associazione mentale, nella loro condizione subordinata ad alcuni dati stilistici, riconoscibili nel modo di reiterare il ricorso ad alcuni materiali e ad alcune forme da parte di Scarabelli, tendono a recuperare una qualificazione formale all’interno di una nuova condizione dell’oggetto come materiale pienamente inserito in un processo costruttivo, di natura “scultorea”. In questo, anche il loro partecipare di una linea discendente dai ready-made di Duchamp si pone in termini problematici, in quanto in origine quel tipo di procedimento rifiutava ogni connotazione stilistica, definendosi per il tratto individuale e irriducibile di ogni azione definita come tale, non assimilabile a un principio ripetitivo, se non nella formulazione successiva di multipli, che ha aperto nuove interpretazioni al genere, oltre a dimostrare che l’eccezione diventa in un modo o nell’altro sempre modello. Questo superamento delle barriere e questa contaminazione dei metodi di elaborazione e di lettura critica di diverse tipologie di scultura si inserisce in un cambiamento verificatosi nel corso del tempo, soprattutto all’interno della generazione di cui Anceschi e Scarabelli sono esponenti.
Tanto Anceschi quanto Scarabelli, per quanto separati di nascita da circa un decennio, sono cresciuti infatti in un clima, quello degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, che si pone oltre la modernità, nel quale le posizioni si fanno più sfumate, meno partigiane. Un periodo in cui tutto sembra già essere accaduto. In questo senso, si può intendere la “postmodernità” come momento successivo a una fase di tensione al nuovo, assorbito nelle pieghe della quotidianità. In diverso modo, l’uno e l’altro, partecipando di posizioni di poetica tradotta immediatamente in idea, azione, immagine, condividono una situazione che sembra priva di connotazioni specifiche, di confini all’interno dei quali porre un lavoro determinato da tecniche, da materiali o da processi individuati. Un’epoca all’interno della quale, a seguito delle diverse direzioni in cui le avanguardie degli anni Sessanta e Settanta hanno portato a superare le connotazioni specifiche, proprio la definizione del linguaggio scultoreo sembrava non avere più ragion d’essere, almeno come ambito specifico. Oggetto, forma, corpo, spazio, immagine, idea, diventano qualificazioni interattive, diversamente combinate nel modo di operare fluido di autori per i quali i processi introdotti dall’arte dei decenni precedenti possono essere paritariamente valide, dentro un orizzonte che si anima in relazione alle intenzioni e alle sensibilità di ciascuno. Con questo, non è sufficiente dire che tutto ha lo stesso valore, o non-valore, che vi è indifferenza assoluta per l’ambito delle forme e dei significati, che si operi con la più assoluta levità e indifferenza. La “leggerezza” può essere ottima compagna, nel sottrarsi ai pregiudizi, alle ideologie, alle posizioni più rigide, ma non è segno di superficialità. All’interno di un modo di agire che risente di un clima in cui non occorre più riconoscersi su un fronte definito, la leggerezza (delle idee e delle “cose”) contiene immediatamente il rapporto con la gravità dei pensieri, del modo di sentire, del bisogno di rispondere al senso di vuoto con energia, con severità, con radicalità, anche. Possiamo considerare valida come radice di tale condizione ciò che deriva da quel connubio che venne acutamente interpretato da Italo Calvino nell’incontro tra le due “vocazioni” riconosciute come proprie alla letteratura (e all’arte, si potrebbe dire, per estensione): “l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni” (Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano, 1988. Un connubio che si può, in certo senso, riconoscere come tratto caratterizzante dell’incontro tra le opere qui raccolte.
Nel lavoro di Scarabelli e Anceschi, che ben conosco reciprocamente da molto tempo, la convivenza di levità e gravità, perciò, non è solo un dato esteriore, riguardante il modo in cui le loro realizzazioni prendono forma e consistenza, ma un atteggiamento di fondo, in cui si gioca il rapporto con la volontà di affermare, attraverso le opere, un modo di sentire, il contatto fra gioco e realtà, fra comico e tragico, che passa nei fili della quotidianità.
Le opere, disposte nelle sale della mostra come un dialogo a due voci, esprimono, nell’oggi, quello che si può considerare il portato del rispettivo percorso personale. Le modalità dell’incontro fanno sì che la combinazione fra il linguaggio dell’uno e quello dell’altro si verifichi su un piano di possibile sintonia, pur sulla base delle marcate differenze che li contraddistingue.
Alcuni aspetti esteriori e immediati rivelano un rapporto di continuità fra i lavori accostati, a cominciare dal loro contatto diretto con il suolo. Nessuna delle opere presentate infatti si colloca su un piedistallo. Questo particolare, che nega uno dei caratteri che hanno contraddistinto nel tempo la scultura come forma separata dalla realtà, inserita in una condizione di “cornice” fisica, più che visiva, contribuisce a rivendicare la “gravità” nel suo stato percepito, di rapporto con il suolo, anche quando, come nell’opera lievitante nel vuoto di Anceschi, intitolata Aeriforme, essa sembra rivelare una condizione che da questa si distacca. Parallelamente, la più “orizzontale” delle realizzazioni qui presentate, Passi sparsi, di Scarabelli, composta da un numero indefinito di calze nere arrotolate, richiama il legame con il terreno quale luogo di percorsi compiuti senza una completa consapevolezza della loro necessità. Anche questa, come molte altre realizzazioni di Scarabelli, si fonda proprio sull’osservazione dall’alto, di cose posate a terra e che cadono sotto il nostro sguardo quasi occasionalmente.
Un altro aspetto che modifica la matericità delle realizzazioni è il loro essere assoggettate a forme di monocromia, processo che produce una specie di neutralità o neutralizzazione del loro effetto visivo e formale. Per quanto di diverso genere e obiettivo, tali colorazioni aumentano l’espressività, ma riducono il carattere fisico delle “cose”, portatrici di una connotazione autonoma che le distacca dall’ambiente. Proprio la loro colorazione costituisce così un elemento qualificante, che le rende degli appunti visivi e attribuisce loro una forte individualità. Ogni opera ha infatti una sua specifica presenza, è segno di un dialogo fatto di contrappunti, in cui equilibri, asimmetrie e materiali si rispondono, in un percorso che sembra scaturire da una logica nata anche dalla casuale corrispondenza di modi di sentire.
Al di là delle assonanze esteriori, che sono essenziali per misurare la relazione che si instaura fra le opere dell’uno e dell’altro, è necessario accennare ai caratteri specifici dei due autori, per verificare il senso di questo incontro.
L’opera di Scarabelli scaturisce da una grande fecondità di motivi, che denotano una continuità di lavoro svolta nell’arco di oltre trent’anni. La sua è una poetica delle piccole cose, di frammenti sparsi, che contengono allusioni, rimandi, segni magari impercettibili, dal carattere quasi metafisico. Il suo è un tempo sospeso, dove nel silenzio alcuni elementi rivelano una loro voce discreta in cui si riconoscono alcune delle presenze o dei fantasmi che accompagnano l’autore nel suo muoversi per i territori dell’arte e delle idee. Nella sua pratica passano immagini dalle quali egli trae forme segrete o nascoste, brani casualmente asportati dalla realtà, ma anche testimonianze dei legami che egli tende a intrecciare con una comunità di figure reali o immaginarie che popolano il suo agire quotidiano. In questo senso, oltre agli oggetti, di natura scultorea, la realizzazione di collage, l’elaborazione di video dal carattere di happening, nonché la creazione di libri d’artista, derivazione dell’attività svolta con la rivista “Vegetali Ignoti” tra gli anni Novanta e primi Duemila, avventura condivisa in particolare con Riccardo Paracchini, e ancora, in tempi più recenti, le performance di genere acustico-sonoro-musicale realizzate con Michele Lombardelli con la denominazione di “Untitled Noise” (alcune delle quali riportate anche in dischi in vinile), fanno del profilo di Scarabelli quello di un autore difficile da inquadrare se non nella sua complessità, di cui le opere tridimensionali, per il loro immediato carattere fisico, sono forse la più compiuta sintesi. In queste troviamo anche la ragione di una pittura che si nasconde agli occhi di chi ne vorrebbe afferrare la qualità estetica, la negazione di ogni effetto di troppo facile collocazione – nell’accostamento tra Paesaggio morto, profilo inserito in una monocromia espansiva, e Antilight, con il colore nero che idealmente sostituisce la luce -, ma anche una certa ironia nei rimandi materiali e concettuali, nonché il senso di un’inquietante interrogazione del presente e del suo portato negli accostamenti, talvolta minacciosi, che si individuano in alcuni suoi lavori. Per questi caratteri, anche se selezionati individualmente, per il loro aspetto specifico, essi vanno intesi come parte di un mondo e di un modo di guardare alle cose che si nutre di disincanto, ma con passione, per usare un altro ossimoro.
Tra le opere esposte, il magico equilibrio di Hysteria, con le forbici che feriscono il muro, sostenendo un uovo di marmo, nero, diventando un’immagine di pericolo, di precarietà e nello stesso tempo di vitalità, trova corrispondenza nella lava nera posata sopra un copertone d’automobile (L’affanno del giorno domina la notte in una forma vuota), traccia di quel che permane all’interno del fluire delle cose. Il moto interno, degli oggetti, delle forme e del pensiero, diventa motivo interrogante, per giungere al più enigmatico dei lavori da lui qui presentati, Immobile limite del contenente, quasi una dimostrazione di un esercizio di fisica messo in atto, dove la sfera di marmo nero precipitata all’interno di un feltro nero costituisce un’immagine dello spazio attraversato dalla materia che lo definisce e forse lo genera.
Ciascuna di queste realizzazioni diventa così un momento di una ininterrotta tensione a tradurre gli spunti che dalle cose provengono in un possibile assunto compiuto.
Dal canto suo, Valerio Anceschi ha coltivato con determinazione nel corso degli anni l’affinamento di un modo di operare che si distingue progressivamente dalla fedeltà a un procedimento, per ottenere degli esiti autonomi rispetto alla loro origine. La partenza è la scelta di un modo di agire, con l’assemblaggio di materiali ferrosi, mediante il quale negare la stessa natura pesante e ingombrante del corpo scultoreo, attraverso la realizzazione di strutture potenzialmente mobili. Caratterizzate sempre da irregolarità che modificano le geometrie, nelle forme esse aspirano in molti casi a un moto indotto, che le renda vive, dotate di istantaneità. Questo lieve movimento, in alcuni casi reso evidente dalla stessa collocazione dell’opera o dalla sua natura di esile scheletro fondato sullo svuotamento della materia, costituisce il principio della sfida che Anceschi rivolge a una tecnica estremamente manuale e materiale. I suoi lavori diventano allo stesso tempo luoghi o personaggi, fisionomie tracciate a parete o nello spazio in cui la natura tridimensionale è negata dal loro essere parvenze di oggetti, ridotti a segni in cui egli gioca con la ripetizione, l’interruzione, la configurazione di fisionomie con tratti familiari, un po’ surreali, e altri stratagemmi che rendono anche in questo caso l’opera una traccia di un confronto tra il processo e il suo risultato. Da Riarmo della parola, titolo scelto per la più recente delle opere esposte, costituita da una forma che si raccoglie su se stessa, delimitando uno spazio che osserviamo dall’alto, alla scelta di porre su una diagonale che la fa lievitare la sagoma di Simmetria/asimmetria (del 2016), per passare al volume ridotto all’essenziale di Sauro (del 2008), e giungere alla apparentemente definita ripartizione di Troncare (del 2021), dove anche le imperfezioni e le imprecisioni rendono la geometria viva e attiva, in tutti i suoi lavori ritroviamo una tensione interna, che porta la forma a essere espressione di una vitalità inevitabile e, verrebbe da dire, inarrestabile. Ogni sua opera si configura così come cosa compiuta e nello stesso tempo come soggetto in divenire, attimo di uno stato di trasformazione che va a toccare le cose. Anche per lui, poi, il lavoro artistico risponde a una esigenza di connessione con il mondo dell’esperienza, dove affiora la percezione degli ostacoli e delle contraddizioni che accompagnano il vivere. Così è stato, per esempio, in una serie di realizzazioni, anche pittoriche, che hanno accompagnato il periodo del Covid e dell’isolamento che esso ha prodotto, così come delle altre ansie in cui si può incorrere oggi, di cui proprio Riarmo della parola vuole essere un segno in positivo.
Per entrambi, quindi, l’agire artistico costituisce un modo non solo di rispondere a una esigenza interiore, ma una pratica in cui si verifica la necessità di una concreta personalizzazione del rapporto con la realtà, da non intendersi come una forma di rappresentazione, ma di concentrazione, di raggelamento, di “fissione” di un momento in un tracciato che comprende, in quel punto e in quell’attimo, le molteplici direzioni in cui si potrebbe dipanare. Ci si può attendere che l’incontro fra le loro rispettive elaborazioni possa contribuire agli sviluppi successivi della loro opera; sarebbe un segno della validità delle iniziative che una situazione come quella proposta dalla Fondazione SABE propone, nel portare attenzione, non in modo “inattuale”, alle forme dell’attività artistica che si raccolgono attorno a quel nucleo difficilmente definibile in cui riconosciamo un’idea di scultura, dentro e oltre le considerazioni critiche che ne hanno messo in discussione le ragioni, tenendone comunque in vita gli esiti.
Francesco Tedeschi