La connotazione del ferro
a cura di Anna Comino
Galleria Spaziotemporaneo via Solferino 56, Milano
dal 4 febbraio al 28 febbraio 2009
La dinamicità del ferro. L’oscillazione, la sospensione, il puzzle.
Il laboratorio di Caravaggio, fin dal cortile, si presenta con delle sculture. Depositate, accatastate, quasi abbandonate. Il segno del tempo, delle intemperie, si fa vedere attraverso una vistosa colorazione rugginosa. Pezzi finiti si confondono con altri che attendono di essere chiamati a partecipare all’opera. Basta un leggero soffio di vento per creare una prolungata oscillazione nei lunghi bracci dei ferri saldati.
Si può partire da qui, dalla prima caratteristica della scultura di Valerio Anceschi: un movimento a volte casuale, a volte ricercato, quasi sempre presente con una certa autonomia rispetto alla volontà del suo creatore.
Tutto il Novecento è attraversato dalle prove più disparate degli scultori. Ognuno ha cercato soluzioni differenti: chi utilizzando meccanismi elettromeccanici per indurlo nell’opera (si pensi alla ferraglia animata di Tinguely o alla scultura cinetica di Gianni Colombo), chi servendosi degli agenti atmosferici o degli elementi della natura (dai mobiles di Calder, alle fontane di Pol Bury), chi ricorrendo alla sola idea del movimento da inserire nella staticità dei materiali più tradizionali.
Valerio Anceschi non ripete all’infinito un’unica idea. Prova. Ad ora ha sperimentato tre differenti soluzioni per indurre il movimento nelle sue creazioni.
L’oscillazione è la più frequente. Per sua stessa ammissione, Anceschi preferisce lavorare sulla grande dimensione. L’espansione nello spazio, i pesi, la lunghezza dei pezzi, favoriscono la ricerca di quell’elasticità ondulatoria difficilmente ottenibile nel piccolo formato. Il dinamismo è latente, inespresso, fino a che un intervento esterno, provocato o casuale, lo fa emergere attraverso una vibrazione a catena che si trasforma in morbida, lenta, prolungata oscillazione.
L’opera parte da un singolo pezzo o dall’accostamento di due elementi, e cresce attraverso il lavoro di saldatura e piegatura del materiale.
Non esiste un verso. Il primo assemblaggio viene girato, capovolto, fino a che i pezzi non decidono quale sia il lato d’appoggio. Solo a questo punto riprende la crescita. Altri elementi si accorpano, un lato si allunga più di un altro, si piega, si involve, fino a che la scultura, ormai viva, prende il sopravvento, e Valerio non può che assecondarne il movimento.
Il ferro, materiale in apparenza pesante, rigido, statico, diventa flessibile, sinuoso. L’andamento morbido delle curve si frena repentinamente contro uno stretto e spigoloso angolo acuto, che ostacola l’azione espansiva, imponendo la ramificazione in un’altra direzione. Singoli dettagli esemplificano al meglio ciò che magari la visione d’insieme nasconde. L’alternarsi continuo di linee spezzate e dinamici movimenti circolari, di superfici piatte e larghe che si assottigliano fino a diventare filiformi, la stessa finitura del ferro, contribuiscono a creare un secondo livello di lettura: quello di un movimento interno all’opera, quello che può essere infuso solo dal creatore, quello che romanticamente potremmo chiamare l’anima della scultura.
Il rapporto iniziale che voleva lo scultore passivo nei confronti della sua creatura, che si lasciava guidare dall’opera, viene ribaltato. La crescita indipendente viene riportata nei ranghi e Valerio Anceschi si riappropria della conduzione.
Si crea uno scontro, o forse più una corrispondenza, tra un immediato ed esplicito movimento reale e un nascosto e sotterraneo movimento virtuale.
In una scultura di qualche anno fa, senza titolo, o nella più recente Fluenza presentata alla Fondazione Pomodoro, si assiste al secondo tipo di movimento indagato dalla ricerca del giovane scultore. In questo genere di strutture sospese è facile pensare ad Alexander Calder, ma le analogie sono solo apparenti. O meglio, l’unico punto di contatto è il ricorrere comune del presentare la costruzione plastica appesa. Mentre in Calder il calibrato calcolo di pesi e contrappesi disegna cerchi concentrici dal senso di rotazione variabile a seconda del gioco di spinta, nel caso di Anceschi il movimento è assicurato dal cavo di ancoraggio al soffitto ed è lineare a causa della staticità del corpo sottostante.
La leggerezza rotante dei mobiles è sostituita dalle torsioni di barre metalliche che si aggrovigliano, restando nel nucleo dell’opera invece di distendersi nello spazio nel caso dell’opera senza titolo, oppure da una bidimensionalità perimetrale dovuta all’assemblaggio di pezzi piatti leggermente sovrapposti nel caso di Fluenza.
L’utilizzo di una struttura a puzzle ci porta a scoprire la terza soluzione sperimentata dall’artista. In questo caso il discorso è molto più mentale, poiché il movimento non è insito nell’opera stessa ma si sviluppa a priori, nell’idea. La scultura si monta e si smonta, si ricompone, adattandosi al luogo in cui viene esposta. Firmamento nasce dall’accostamento di numerosi pezzi che altro non sono che scarti di fonderia: è quello che avanza dallo stampo di giunti da gru. Il disegno impresso in ogni singola piastrella, accostato ad altre, dà vita ad una struttura cellulare di notevole impatto visivo. Gli elementi, in apparenza identici, si differenziano uno dall’altro modulandosi in una struttura percorribile, calpestabile, e al tempo stesso iper decorativa, floreale, come un vecchio cancello art nouveau in ferro battuto. È in un’opera come questa che trovano piena rispondenza le dichiarazioni programmatiche dello scultore a proposito del progetto: “E’ impensabile (…) che nella mia ricerca artistica sia coinvolto un progetto. Voglio ribadire fortemente il concetto del non progettare. Non si tratta di sognare la forma di notte e la mattina dopo di eseguire la scultura del flash-sogno. (…) Realizzare la scultura in scala reale derivandola da un progetto o bozzetto in scala ridotta è per me impensabile. E altrettanto impensabile è l’intera operazione del progettare: sarebbe come andare contro corrente rispetto alla legge naturale del mio lavoro”.
Ma torniamo alla nascita dell’opera. Considerare questo tipo di materiale come punto di partenza non è una scelta priva di ripercussioni. Esattamente come nei ready-made di Duchamp, a monte c’è un comune atto di selezione. Nel caso dell’artista francese si tratta di una scelta da operare nell’ambito del prodotto già manifatturato, per il giovane scultore di ricercare tra i semilavorati o più di frequente tra gli scarti di fonderia.
Entrambi i pezzi scelti non presentano tracce del gesto creatore e occupano passivamente la nostra esistenza fino a che non vengono ulteriormente spersonalizzati, annullati nel loro ruolo originario, per diventare opera. Nel caso di Duchamp l’oggetto resta oggetto ed è l’artista che, con un’operazione meramente intellettuale, interviene per farlo diventare arte. Anceschi, invece, parte da questo punto per realizzare il suo intervento artistico ancora prevalentemente manuale.
Lo scultore dopo aver selezionato gli elementi, inizia quell’aggregazione di saldature che porta ad unire un pezzo dopo l’altro per ottenere una struttura estensibile potenzialmente all’infinito.
Benché si citi come suo bagaglio culturale l’immediatezza del dripping di Pollock, la gestualità più pura, per ovvi motivi tecnici la scultura (perlomeno il tipo di scultura scelto da Valerio) è tutt’altro che immediata. Richiede pause, riflessioni e ripensamenti. Un lavoro lento. Bisogna ammettere però che in costruzioni frastagliate come Quadrivio ogni singolo frammento di ferro saldato cita la pennellata, il colpo impresso allo strumento, imitando quasi lo svirgolamento di un Kline, piuttosto che di un Hartung. I pezzi si rincorrono l’un l’altro, aggrovigliandosi in una serpentina apparentemente elettrificata. Elemento importante di questo tipo di soluzioni è che il pezzo scelto si presenti già con la sua forma a gomito e non sia il risultato della volontà dell’artista. Lo scultore decide in una fase successiva come accostare i pezzi sottolineando un particolare, la piegatura, e rendendolo l’elemento caratterizzante dell’opera.
La proiezione ambientale: l’espansione tentacolare e il rapporto con lo spazio.
La collocazione fisica dell’opera ne modifica in modo sostanziale il grado di percezione. Come già detto le sculture di Valerio Anceschi sono caratterizzate da una crescita nello spazio circostante. Gli spazi del creatore e dell’osservatore comunicano tra loro. Lo spettatore si sente coinvolto, partecipa della stessa dimensione occupata dalla scultura in quanto entrambi sono in grado di produrre movimenti-mutamenti al suo interno. La collocazione in un ambiente chiuso porta ad indagare il rapporto con il doppio, con l’ombra. Un’ombra, si badi bene, mutevole. Non essendoci una visione frontale, a parte il caso di alcune sculture da parete, l’opera è osservabile da tutti i lati offrendosi ad ogni passo in un’ottica differente. Il disegno dell’ombra segue questo gioco di perenne mutamento, ricreando un doppio multiforme. E’ il caso dell’articolata proiezione di opere come Trentasette saette e più ancora Convolvolo, dove insistito è il rimando alle riprese fotografiche notturne in cui un lungo tempo di esposizione fa apparire i fari delle macchine come interminabili scie luminose.
La percezione dell’opera, il suo poterci girare intorno, porta a citare tre precedenti illustri: David Smith, Anthony Caro e Mark Di Suvero.
La scultura di Smith introduce, verso la metà del secolo scorso, il concetto di disgiunzione visiva, per effetto del quale la visione frontale e quella laterale non sono legate dalla trasparenza interna vivendo autonomamente l’una dall’altra.
Con le dovute cautele lo stesso concetto si può applicare alle sculture di Anceschi. La complessità e mutevolezza delle varie vedute, negate da un’unica visione frontale, impedisce allo spettatore di raccogliere tutti i dettagli registrati in un’unica immagine identificabile. Questo lo si può osservare in alcune delle sue ultime opere, ancora senza titolo. Le sculture più vecchie gettano le basi per arrivare a questo tipo di soluzione, ma non sono ancora così elaborate. La forte bidimensionalità che ancora le percorre, porta spesso a riconoscere immagini speculari, fronte-retro e testa-coda.
In quest’ultima serie, invece, la combinazione dei piani, le linee concave e convesse, le curve che si infrangono contro gli angoli, generano un corpo che non è superficie, ma che attraversa lo spazio penetrandolo, quasi bucandolo, facendosi a sua volta attraversare dalla luce. Il vero corpo-massa è lo spazio, che entra così a pieno titolo a far parte della scultura. La cosa avrà dei connotati molto più chiari e precisi quando Valerio Anceschi arriverà a trasporre questa stessa soluzione su scala ambientale.
Per ora le creazioni scultoree pensate per gli spazi aperti sono ancora bidimensionali. La mostra organizzata nel 2004 nella Villa Cernigliaro di Sordevolo dà l’idea del grado di fusione che le opere del giovane scultore riescono a raggiungere con l’ambiente circostante. Si passa dalla semplice collocazione in spazi aperti di Meccanica celeste, al dialogo serrato delle forme corrosive di Automazione 1 e 2 con gli elementi del giardino italiano, alla simbiosi totale di Fagus pendula con gli alberi o di Voci di ringhiera con la panchina.
Si tratta di linee, frammenti, che tagliano lo spazio. Siamo molto lontani dalla concezione di vuoto teorizzata da Henry Moore e ripresa da tutta la generazione post-bellica. Probabilmente è impossibile parlare di sfondamento nel caso di una scultura che non parte da zero, ma da un materiale già formato, addirittura già lavorato, con una forte connotazione formale. Il dialogo spaziale tra l’ambiente e le sculture di Valerio Anceschi è più da attraversamento. Le opere, anche di dimensioni ragguardevoli, sono penetrabili dall’elemento aria. La costruzione ramificata di Confluenza, dalla nitidezza quasi grafica, si lascia attraversare dalla luce senza opporre resistenza. Anche gli ingrossamenti generati dalla sovrapposizione dei pezzi nei punti di giuntura, sono riconoscibili solo se osservati a distanza ravvicinata. La visione d’insieme annulla il dettaglio e registra solo il flessuoso andamento ondulatorio di un ramo in autunno, spoglio, che spezza e fraziona la linea dello sguardo.
Le superfici, mai riflettenti, si offrono alla vista senza nascondere tracce del loro precedente vissuto. Il profilo frastagliato di Automazione non viene mai mortificato con una levigatura, così come l’iper decorativismo di Senza titolo, o la sinuosità avvolgente di Negativo. Fluttuano nella dimensione spazio quasi con voluttà, mettendo in evidenza i dati “storici” del pezzo enfatizzati dalla curvatura del ferro.
Tra figurativo ed astrazione.
Gli elementi di questa scultura virano decisamente all’astratto. Forse, però, Valerio Anceschi non ha ancora deciso di fare il gran salto ed entrare pienamente nel mondo dell’astrazione. La scelta di titoli dall’accentuata valenza figurativa lo pone in bilico, quasi sospeso, tra due mondi che non abbraccia e non rifiuta in modo totale. E’ come se lasciasse aperta una porta di comunicazione per non essere costretto a negarsi nessun impulso che possa derivare da un mondo piuttosto che da un altro, fino al punto di generare una contraddizione di termini.
E’ il caso di una sua recente opera, Nemophera metallica. I morbidi tentacoli ferrosi si insinuano e crescono a ridosso della parete. Come la farfalla che vogliono rappresentare necessitano di un punto d’appoggio, che diviene al tempo stesso sostegno ed elemento di sospensione, di attesa, di preparazione al volo che forse mai ci sarà. Ma così come per il progetto, eventualmente ricreabile a posteriori, anche il titolo nasce ad opera ultimata.
E’ un modo come un altro per guidare lo spettatore, per indurlo a riconoscere nei filamenti astratti ciò che lo scultore ha deciso debba essere interpretato. Si innesta un processo grazie al quale struttura interna e superficie entrano in risonanza, spingendo lo spettatore a decodificare le forme che gli angoli e i piani rendono visibili. Valerio dà un nome alle forme e gioca sulla suggestione del visitatore. La sua è una scelta più che espressiva, evocativa.
Ma è anche un’arma a doppio taglio, dato che il tempo, poi, agisce in modo subdolo. I vari spostamenti della scultura in occasione di mostre ed esposizioni, ed anche un trasloco, hanno spinto lo stesso artista a guardare la sua creatura con altri occhi. Ed ora è un nuovo pezzo, disteso sul pavimento. Continuando la metafora, la farfalla è volata via lasciando a terra il suo bozzolo. E’ una situazione al limite, di difficile gestione, che apre una parentesi sul complicato rapporto con il ferro e con le sue variabili. La scultura mantiene così quella tensione costante, per cui la struttura è in continuo divenire, soggetta ad un particolare rapporto di sudditanza con la gravità terrestre.
Dopo questa esperienza Valerio Anceschi ha continuato a studiare le soluzioni da parete, riducendo però le dimensioni e abbandonando il contatto con il pavimento. Le due versioni di Frase verticale, così come altri pezzi di più ridotto formato, appartengono a quest’ultima soluzione creativa: corpi leggeri e filiformi le cui propaggini assumono l’aspetto di un alfabeto cifrato nei casi più spigolosi (Fuoco centro, Grappolo), di un arabesco gestuale in quelli più sinuosi (Vibratile, Svincolo, Anonimo n. 238).
Le piccole sculture da terra riproducono un sistema tonale di scale maggiori o minori. A metà tra musica e vegetazione, spingono verso una costruzione armonica seriale. Come un albero partecipa del respiro del bosco, così la funzione corale di queste plastiche è parte di un tutto più grande. Taranta, la più mossa della serie, simula i fluidi movimenti delle dita di un’arpista che sfiorano le corde dello strumento, a cui risponde l’eco ovattato delle altre prove.
Soluzioni diversissime tra loro, eppure tutte legate da un modulo triangolare distorto che si ripete quasi in ogni scultura. Casualità o volontà? Attraverso il lavoro di assemblaggio e curvatura dei pezzi, Anceschi cerca di far passare in secondo piano quell’attrazione iniziale per la forma. Lotta impari che si risolve in un’ulteriore accentuazione di quella scelta istintiva che ha portato all’utilizzo di quello specifico elemento.
Ma questo è il ferro. E’ la sua connotazione.