Punto di domanda
a cura di Francesco Leonetti
Galleria 10.2, via Ponte Vetero 22, Milano
dal 28 giugno al 7 luglio 2001
Il modo sorprendente del fare scultura di Valerio Anceschi consiste nella “Manipolazione” – come egli stesso dice -: non gli viene già deciso (o quasi) il progetto, il modello di avvio; è invece mentre interviene e svolge, allungando o spostando o piegando aste e nodi, che l’opera si configura. Vedremo meglio cosa vuol dire: è proprio della forza inventiva, e nei miei trent’anni di Estetica a Brera ho trovato ben di rado una tale capacità.
Valerio ha cominciato col dipingere, alcuni anni fa, affascinato da Pollock; nell’atelier vedo pareti metalliche o pagine spruzzate,quelle che sono state all’origine dell’“informale”… Più maturamente si è interessato del tondino di ferro; dapprima includendo i fili suoi dentro avvolgimenti curati di gesso col piacere di riprendere Arp; e poi, restando come affascinato dalla macchinetta di saldatore, con le operazioni specifiche della connessione di pezzi, ciò l’ha portato a questa sua intrapresa coinvolgente: che, direi, protrae inattesamente – contro tutte le ricerche diverse e amare dominanti negli anni Novanta – l’espressionismo astratto novecentesco in alcuni motivi nuovi e suoi propri in senso linguistico-stilistico.
Ho conosciuto il giovane Anceschi come allievo in una scuola di perfezionamento nella scultura, in Montefeltro, in estate; l’ha fondata dieci anni fa e ora la presiede Arnaldo Pomodoro (col quale ho un “sodalizio” fra artista e scristore, fin dal ‘60). I giovani scelti sono ospiti -della Cee e della Regione Marche – lavorando con istruttori e avendo materiali disponibili per tre mesi; io insegno (qualche volta) estetica, come a Brera; e l’opera compiuta è proprietà del comune (Pietrarubbia) ed entra in una mostra collettiva, poi resta esposta in un borgo sei-settecentesco. Non c’è niente di simile neppure in USA… Ho visto che il lavoro dell’Anceschi (proveniente da Brera) si è mosso con ricerca allora complicata (mentre ora è Eliseo Mattiacci il direttore artistico); Valerio è allora arrivato piuttosto a una serie movimentata di piccoli fogli…
Poi, quando ho organizzato nel C.S. Leoncavallo (dove ho diretto l’attività culturale per qualche anno) una mostra di “idee” per una ricorenza storica, mi sono entusiasmato della scultura di lui. La ricorrenza è la morte di due ragazzi del liceo artistico Hajech uccisi nel ‘68 (mentre era preside Staccioli). Ora Anceschi presenta una forma circolare alta un metro, circa, e costruita di due semicerchi che si sfiorano, come lunghi bracci, indicando così i valori di una comunità presente. (Il concorso è ancora aperto, con opere esposte a Milano).
Dicevo poco fa quale è la crisi difficile della ricerca artistica; la tecnologia tende a svuotare la coerenza formale interna. La scuola di cui ho parlato ha la sua “tradizione del nuovo” nelle sfere rotte di Pomodoro e in un ‘minimalismo’ – in parte concettuale – presso Mattiacci. Ma come procedere nel folone delle avanguardie, oggi, dopo che c’è stato un esercizio inventivo enorme sui nuovi materiali (plastiche e altri) e inoltre ci sono state, appunto, le “strutture primarie” e l’“informale”, ed è invece emersa infine la ‘simulazione’ come motivo teorico principale?
Cerchiamo ora di definire (descrivere) i suoi lavori. Ricapitolando altrimenti la via degli Spagnulo, Cardi, Carrino, suoi maggiori, mi pare che l’invensione trasporti Valerio Anceschi piuttosto ai grovigli, come caratteristici dell’oggi. Giunge a costruire una lunga asta (4 o5 metri) in un moto di slancio ondeggiante verso i cieli per dispersione o fuga, quasi albero o quasi antenna o quasi squilibrio puro. E anche, oppure: la ricchezza estrema di concentrazione annodata ci dà una sorta di figura astratta umana, poggiante su piedi o supporti più lunghi, contratta in sè pur arcuandosi, in uno sforzo di tenere il confronto col mondo…
Dunque la tenacia – apparentemente dolce, fortissima più sotto – di Valerio sta nel sostenere, nonostante l’attuale “cultura del consumo”, il confronto col mondo, contro il post-moderno eclettistico e la transvanguardia spesso dubbia. Ma ciò che più sorprende e piace in lui è un suo modo creato di movimento interno continuo (come nella poesia, direi): l’opera sculturale non appare fissa, occupante spazio (come teorizzava addirittura Hegel, poi contraddetto su questo e altri punti dall’Esserci heideggeriano); appare un risultato insieme mobile e fermo di “varianti”, in quanto un allungamento diritto di asta è stato poi indotto-deciso a piegarsi, rispondendo all’insieme, alla ritmica, all’assolutezza… Com’è bello questo contraddire il design e la cosiddetta “cultura del progetto”, pur avendola conosciuta, questo contraddire ciò che è come bloccato per potersi ripetere, e sta prevalendo da anni e restituendo purtroppo la simmetria!
Un nucleo di “mare”, espansivo, folgorante, sta qui in parete, e c’è anche un contortissimo “nodo” ultrasaldato, originale.
Francesco Leonetti